Riflessioni sulla vicenda UnoBravo-Chilly
È ormai passato qualche giorno dalla pubblicazione della campagna di marketing che vede la collaborazione tra i brand UnoBravo e Chilly. In breve, si tratta di un concorso a premi che prevede l'erogazione di coupon per due colloqui psicologici gratuiti a seguito dell'acquisto di un prodotto per l'igiene intima (femminile, che sia chiaro).
Ci soffermeremo brevemente sull'analizzare la questione dal punto di vista della deontologia professionale, ma riteniamo che essa squarci un velo ancora più oscuro sui temi di profitto, capitalismo, liberismo, autodeterminazione e tutela professionale.
All'interno della comunità professionale, le comunicazioni ufficiali sulla vicenda che si sono susseguite hanno posto l'attenzione sulla modalità di pubblicizzazione e sulla natura della prestazione professionale offerta che, essendo di stampo sanitario, dovrebbe essere improntata ai principi di libertà, consapevolezza e dignità professionale. Sulla base di ciò, la collaborazione in atto si verrebbe a delineare come "svilente nei confronti dell'immagine sociale della professione" e della prestazione stessa offerta. Si invitano, pertanto, gli ordini professionali regionali a "valutare le posizioni deontologiche dei singoli Iscritti", facendo intendere la possibilità di perseguire a livello disciplinare ə singolə professionistə.
Alcuni Ordini regionali si sono comprensibilmente dissociati da questa iniziativa - ritenendola peraltro non concordata - ma la questione che rimane aperta è: può la terapia psicologica diventare uno strumento di profitto o questo rischia di essere svalutante nei confronti della professione? E ancora, la salute mentale è un fatto individuale o collettivo?
Approcciandoci al tema da lontano, la traiettoria che ultimamente pare percorrere l'opinione pubblica è quella di un progressivo smantellamento dello stigma nei confronti della salute mentale ed una crescente attenzione e sensibilità verso il tema, soprattutto da parte delle nuove generazioni che richiedono a gran voce che i servizi psicologici siano accessibili, capillari, gratuiti ed equi. Queste richieste ci pongono dinnanzi ad una presa di consapevolezza in merito allo stato attuale dei servizi che effettivamente non sono né accessibili, né capillari, né gratuiti, né tantomeno equi.
Qual è stato il cortocircuito che ci ha condotto fin qui? L'origine di tutto ci sembra che possa essere rintracciata in un elemento tanto "banale" quanto fondativo, ovvero la scelta deliberata messa in atto dalla politica nel corso degli anni che va nella direzione di un crescente e subdolo disinteresse nei confronti della salute pubblica.
Il proliferare delle piattaforme online avviene infatti nel terreno fertile del liberismo, in cui in assenza di una prospettiva collettiva, lo scarto tra domanda e offerta viene colmato in modo arbitrario dal privato, facendo sì che i servizi di salute mentale siano più accessibili per chi possiede già di per sé un privilegio (legato alla classe sociale, alla disponibilità economica, all'accesso alle informazioni, all'orientamento sessuale, al genere di appartenenza, alla provenienza geografica, e così via) e legittimando, di fatto, una corsa al profitto ormai cieca.
Nel sistema liberista e capitalista, tuttavia, non ci è immersa solo l'utenza che usufruisce di un servizio ma anche la comunità professionale, nei confronti della quale emerge una riflessione più ampia riguardo il tema della formazione universitaria e post-universitaria, che appare essere sempre più carente nel fornire informazioni e stimolare un pensiero critico in merito al contesto in cui la disciplina è nata e si è sviluppata, alle evoluzioni sociali e culturali che ci attraversano, all'emergere di una consapevolezza in merito al mandato sociale che ogni professionista della salute mentale è chiamatə a perseguire.
Quando viene meno tutto ciò, si assiste ad una progressiva deresponsabilizzazione che tanto fa comodo alle istituzioni, nessuna esclusa: al potere politico, che appare legittimato nel disinvestimento nei confronti della sanità pubblica; agli ordini professionali, che abdicano al loro dovere di tutela della professione; alle università, che diventano anch'esse poli di accumulo di profitto.
Qual è la conseguenza? Lo svilupparsi di una categoria professionale sempre più insicura, povera ed improntata all'individualismo, che agisce per compensazione andando a ricercare nell'attività privata un arricchimento del proprio status sociale ed un mezzo di sostentamento, spesso ritrovandosi ad accettare di essere sfruttata per mancanza di alternative concrete e ritrovandosi nell'impossibilità di potersi autodeterminare.
Si sa, i diritti non generano profitti ma a questo punto risulta essere chiaro che la salute mentale non può più essere considerata un fatto privato, in quanto possiede delle radici storiche, economiche e politiche che riflettono il mondo in cui viviamo.
Ri-politicizzare la psicologia significa riappropriarsi della questione non solo da un punto di vista individuale ma anche collettivo, riscrivendo la narrazione attraverso una riflessione interna che può - e deve - minare lo status quo.
Dunque: manteniamo viva la riflessione sulla deontologia professionale, sulle scelte di marketing, sulla necessità di stimolare un pensiero critico; allo stesso tempo, però, non è più rimandabile un'opera di messa in discussione e decostruzione del sistema in cui tutti e tutte ci troviamo ad annaspare.
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